Beyond User Research: fare ricerca per conoscere, provocare e co-progettare, fra quotidianità e Intelligenza Artificiale.

Ricerca quantitativa e qualitativa a confronto: se la prima vanta una componente “scientifica” che la fa percepire come oggettiva, la seconda può portare a delle evidenze “empiriche” che altrimenti resterebbero inesplorate. Cosa caratterizza il dato qualitativo? I due approcci alla ricerca sono intercambiabili? In che modo è possibile combinare metodologie di psicologia e di design per individuare nuovi scenari progettuali e generare esperienze più soddisfacenti?

Experience Design Academy
7 min readDec 4, 2020

L’articolo è un estratto dell’evento online gratuito “20° UX Talk: Beyond User Research” tenutosi online il 19 novembre 2020.

Quella di seguito proposta è una riflessione che va oltre la mera contrapposizione tra ricerca qualitativa e quantitativa, in direzione di un approccio più olistico nel considerare le metodologie di studio di quelli che ormai sono oggetti estremamente complessi e che necessitano e beneficiano di un continuo dialogo tra entrambe le metodologie, due facce della stessa medaglia.

Ce ne hanno parlato nell’evento online del 19 novembre 2020:
Roberta Tassi, Service Designer e CEO di oblo
Stefano Triberti, Ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano

Moderatori:
Venanzio Arquilla, Co-direttore Master in User Experience Psychology
Andrea Gaggioli, Co-direttore Master in User Experience Psychology

From Big to Small Data e viceversa.

Guarda il video integrale dell’intervento di Roberta Tassi

Ricerca è relazione, che cresce ed evolve nel tempo: una conoscenza orientata a raccogliere informazioni, alla scoperta di mondi che non conosciamo o ispirazioni e storie da raccontare dando forma a progetti. Questa definizione è vera soprattutto in ambito di ricerca esplorativa, tesa cioè a costruire un bagaglio di conoscenze su un dominio in cui ci si trova a progettare.

Un tema su cui oblo sta attualmente facendo ricerca sono le conseguenze dello spostamento dei corsi universitari su piattaforme digitali: negli Stati Uniti milioni di studenti non vanno più fisicamente al college, ma fanno lezione in modo ibrido o esclusivamente inline. Nonostante si tratti di nativi digitali, sondaggi e ricerche raccontano che l’insegnamento a distanza comporta numerose difficoltà.

Dati dal white paper “College-Level generation Z COVID-19 Impact Study”

Un primo approccio di ricerca al tema ha visto una fase di mappatura di articoli e pubblicazioni del momento sul remote learning, necessaria a costruire una base preliminare di conoscenza e comprensione generale dell’argomento e delle maggiori criticità. Questo step ha permesso di iniziare ad individuare alcuni temi di interesse intorno cui focalizzare i passi successivi di ricerca.

Mappatura della letteratura in merito all’online learning, con cluster tematici evidenziati dai diversi colori.

La discussione sul tema sembra concentrarsi per lo più su come le tecnologie possano effettivamente migliorare l’esperienza dell’apprendimento con situazioni più immersive, ma diverge anche sulla difficoltà dell’utilizzo di questi sistemi, in particolare per persone con particolari patologie, ad esempio legate al linguaggio o per comunità con minori possibilità di accesso al digitale. Altri temi emersi riguardano la nostalgia del commuting e di ciò che implicava potersi spostare assieme ad altre persone quotidianamente.

La ricerca si è quindi spostata sul tema degli strumenti di remote learning, andando ad analizzare review e opinioni, alla ricerca della voce autentica delle persone: qui infatti è possibile trovare assieme ai loro commenti una genuina condivisione dei loro comportamenti e delle loro difficoltà. Questo ha fatto emergere temi più specifici, come quelli legati alla salute mentale e/o fisica, alla compatibilità d’uso dei vari sistemi e all’accessibilità, oppure tematiche di relazione come ad esempio tra studenti o tra studenti e docenti.

Una cernita di strumenti raccolti e documentati, categorizzati per ambito.

Sono molteplici le risorse online da cui estrarre conoscenza e con cui verificare le osservazioni fatte: i contenuti generati spontaneamente dagli utenti (UGC) sono particolarmente rivelatori di opinioni ed eventuali disagi, e utili per capire il sentire della gente intorno all’argomento.

Un esempio di meme attualmente condivisi sul tema, documentati in occasione della ricerca.

A questo punto è stato possibile andare a chiedere a studenti di raccontare la loro giornata con contributi fotografici e un diario quotidiano. Questi contributi danno un’idea più chiara di come sia cambiata la loro vita: ad esempio cercano di avere una scaletta molto più chiara della loro giornata per isolare i momenti non dedicati a stare davanti allo schermo. Dalle immagini capiamo inoltre l’ergonomia delle situazioni in cui si trovano a studiare.

Contributi fotografici condivisi da studenti durante la ricerca: un calendario zeppo di lezioni, le sveglie reiterate, fogli, schermi e quaderni, tutto ci dà un’idea di come è configurata la postazione e di come questo incide sulla loro esperienza del remote learning.

Successivi sono gli step di intervista diretta con gli utenti e, perché no, provocazione, coinvolgendo gli intervistati in attività di co-design e problem solving, per ottenere soluzioni compartecipate e aumentare così il grado di accoglienza e adozione del progetto nascente.

La Ricerca può diventare un momento di co-progettazione,

coinvolgendo i propri utenti attraverso stimoli e riferimenti, con un approccio partecipativo che ci avvicina a nuove soluzioni di progetto. Questa idea di riunire ricerca e progettazione fa parte dell’attività dello UX Researcher e può essere puramente esplorativa o andare già in una direzione di ottimizzazione di prodotto. Necessaria è una buona dose di creatività, intesa come la capacità di trovare di volta in volta il modo migliore con cui portare avanti la relazione con gli stakeholder, a seconda del contesto in cui ci troviamo a lavorare.

Interfacce efficaci e IA

Guarda il video integrale dell’intervento di Stefano Triberti

In ambito medico/oncologico si sente parlare sempre più spesso dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (IA) a sostegno delle attività dei medici, specialmente per:

  • analisi delle caratteristiche genetiche dei pazienti e della letteratura scientifica;
  • tracciamento dell’andamento dei pazienti durante il trattamento;
  • definizione delle fasi di intervento sul paziente.

Le intelligenze artificiali consistono infatti, nella loro forma più semplice, in programmi in grado di individuare caratteristiche comuni da un numero elevato di stimoli ed estrarre output rilevanti a livello di analisi.

Ma fino a che punto può l’IA condividere col medico il lavoro di diagnosi?
L’IA non è uno strumento agnostico: per sua natura partecipa al ragionamento e fornisce analisi autonome dei problemi. È però a tutt’oggi impossibile risalire con certezza al processo che ha portato l’IA alla definizione della soluzione che propone, anche per i suoi programmatori — il famoso problema della black box.

Queste tecnologie hanno un problema di fondo: non è facile capire come e perché giungano a una determinata decisione, poiché mancano di un livello di interfaccia sufficientemente maturo da risultare comprensibile ai loro utenti.

Per prendere decisioni diagnostiche e terapeutiche, un medico ha bisogno di identificare la natura dei problemi e di tenere conto di molteplici criteri: ha preoccupazioni etiche e deontologiche e deve gestire in prima persona le conseguenze delle sue scelte terapeutiche.

In altre parole, i medici hanno bisogno di spiegazioni, ma per quanto avanzate, le IA attuali sono in grado di fornire solamente dati aggiuntivi a sostegno del loro “responso”, che però non sono assimilabili a vere e proprie spiegazioni, in quanto:

  • le spiegazioni sono contro-fattuali, es. “perché A e non B?”;
  • le cause valgono più delle probabilità.

Le spiegazioni, in sostanza, ripercorrono i processi decisionali in modo semi-narrativo e tengono conto degli obiettivi di contesto (famoso è l’esempio dell’IA che si ostina a raccomandare terapie non coperte dall’assicurazione sanitaria). Una spiegazione di quanto viene suggerito risulterebbe più efficace se fosse possibile interagire con chi la fornisce e ottenere chiarimenti contestuali.

Per un impiego nell’ambito medicale, l’IA necessita di un’interfaccia in grado di dialogare con i suoi utenti: ecco perché si parla di “XAI“, Explainable Artificial Intelligence.

Per comprendere l’atteggiamento dei medici rispetto all’utilizzo di AI nella loro pratica professionale e le loro preferenze rispetto alle modalità di interazione, l’Università degli Studi di Milano ha avviato una ricerca con un numero ristretto di medici praticanti, non esperti di IA ma interessati a utilizzarla.

Elementi presi in considerazione perché importanti in ambito psicologico, la credibilità della fonte (in questo caso l’IA) e l’atteggiamento verso la decisione (“come ti sentiresti se prendessi una decisione sulla base dell’indicazione di un’IA?”)

È stata quindi sottoposta loro la stessa diagnosi supportata da 4 diverse forme di dato, chiedendo loro quali preferissero tra:

  • diagnosi sostanziata da una definizione;
  • diagnosi sostanziata da un’analisi della letteratura scientifica;
  • diagnosi differenziale;
  • diagnosi con un racconto del processo decisionale.
Le prime due forme rappresentano ciò che l’IA è capace di fare ad oggi; le seconde due sono invece due vere e proprie spiegazioni.

I risultati della ricerca, ancora preliminari, sembrano suggerire che i medici preferiscano, in termini di affidabilità e credibilità, le due diagnosi (differenziale e processo) corredate da una spiegazione, quindi quelle più simili a quelle che fornirebbe un collega “umano”. Questo porta ad affermare come l’IA non potrà sostituire in toto la figura del medico ma potrà comunque diventare, con i dovuti correttivi, un supporto di consultazione, approfondimento e ragionamento.

In questo senso sarà decisivo il ruolo del designer per umanizzare l’interazione con le intelligenze artificiali e renderle esperienze portatrici di senso.

Conclusioni

La ricerca è una fase irrinunciabile della progettazione perché aiuta a ridurre le frizioni tra i bisogni dell’utente finale e gli obiettivi di business. Non si tratta di determinare quale tipo di ricerca, se quantitativa o qualitativa, meriti maggiori investimenti nello sviluppo di un prodotto o quale venga prima o dopo, quanto di individuare figure professionali che sappiano gestire entrambe le tipologie in modo complementare e trasversale a tutte le fasi, per trarre il massimo dalle evidenze che ogni metodologia può portare al progetto.

Per formare le professionalità che sapranno dominare processi neurologico-cognitivi nel dominio del design è nato il Master in User Experience Psychology, un percorso formativo innovativo che vede unire le forze Università Cattolica del Sacro Cuore e del Politecnico di Milano, POLI.design, in partenza a gennaio 2021.

Per informazioni e candidature:
UxP Master — Cattolica
UxP Master — POLI.design

Contatti:
master.UXP@unicatt.it
xda@polidesign.net

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